martedì 9 luglio 2013

Gli internati civili italiani nella Prima Guerra Mondiale


Mio carissimo Umbro!
Ti mando la fotografia della mia stanza che serve per dormire, mangiare, e cucinare. Non sono riuscito bene, ma spero che tu mi riconoscerai istessamente. Attendo ora con ansietà di vedere la tua fotografia e quella delle zie. Io sto bene, così spero pure di te. Darai per me tanti baci alla cara Lina ed alle buone zie; per un gran bacione da
papà


Così scriveva il 27 ottobre del 1916 Virginio Apollonio al figlio Umbro, futuro docente di storia dell’arte all’università di Padova, critico militante e direttore dell’archivio d’arte contemporanea della Biennale di Venezia dal 1950 al 1972, a cui nel 1981 è stato dedicato a San Martino di Lupari (PD) il locale museo civico di arte contemporanea.
 La cartolina è stata spedita dal campo di concentramento di Göllersdorf, nel distretto di Hollabrunn a pochi chilometri da Vienna. Il il k.k. Internierung station di Göllersdorf insieme a Katzenau, a Hollabrunn  ed a Wiener-Neudorf ospitava gran parte degli internati civili italiani deportati in varie località dell’impero a partire dal maggio 1915.
Con l’entrata in guerra dell’Italia, l’Austria Ungheria estese infatti anche ai sudditi del trentino, della Venezia Giulia e dell’Istria le misure repressive già adottate in altre zone dell’impero e per altre etnie. L’internamento in teoria veniva deciso per sospetti circa le opinioni politiche o per vicinanza alla zone di operazioni belliche, ma in realtà avveniva spesso sulla base di semplici delazioni anonime. Bastava in molti casi il semplice fatto di non conoscere la lingua tedesca per rientrare nella lista dei sospetti. Scriveva il deputato socialista Valentino Pittoni: “la più lieve diffidenza fatta nascere da qualche fonte disonesta, il rapporto più raffazzonato e meno scrupoloso di organi di polizia meno subordinati bastavano per internare o confinare illegalmente un uomo, per trascinarlo qua e là per anni interi come un volgare delinquente di stato, per esporlo all'odio e al disprezzo della popolazione, per consegnarlo a degli organi di polizia che mostravano gioia bestiale contro gente indifesa”.  A ciò si aggiunga il fatto che fra le varie etnie presenti nel territorio dell’impero quella italiana venne sempre vista con sospetto dalle autorità austro ungariche in quanto la meno integrata nella macchina dell’impero. Già da metà ottocento le autorità asburgiche  nei territori della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia avevano iniziato un’opera di slavizzazione e germanizzazione a partire dal favore con cui vedevano l’immigrazione slava e tedesca in quei territori e poi agendo dalla toponomastica ( addirittura nel 1912  la Luogotenenza della Dalmazia con un decreto, dichiarò abrogati i nomi italiani di 39 località, che vennero completamente  croatizzate. Però fecero sparire dagli atti alcuni nomi italiani, come Piedimonte (sostituito con Podgora), Castelmuschio (con Omisalì), Pisino (con Mitterburg o con Pazin) oppure ammisero una bilinguità ufficiale, mettendo, ad esempio, sulle stazioni ferroviarie presso al nome italiano lo slavo usato nel dialetto degli Slavi delle campagne (Koper presso Capodistria, Porec presso Parenzo) o inventandone uno, come fecero ad es. per Muggia inventando un nome Mile, per Visignano un Vizinjan, per Castagna un Kastanja e simili. A ciò si aggiunga il fatto che negli anni intorno al 1914 l'Austria Ungheria progettava di trasformare la duplice monarchia in triplice monarchia austriaca, ungherese e slava, anche per far fronte all’irredentismo slavo sempre più forte anche a causa della politica antiaustriaca della serbia, favorita dalla Russia. Le deportazioni quindi  si intensificarono a partire o dall’adesione dell’Italia all’Intesa, e e aumentarono a dismisura: alcune zone del Trentino, poste a ridosso del fronte, vennero completamente spopolate,  i deportati trentini furono circa 75000, decine di migliaia i triestini e gli istriani, oltre a un numero imprecisato di italiani provenienti dal Cadore austriaco e dalla Dalmazia.  Complessivamente i deportati furono 185000, circa quindi il 20% dell’intera popolazione italiana dell’impero.
Per dare un’idea del trattamento riservato a questi deportati nei lager asburgici, bastino alcuni esempi. Su 1754 Trentini prigionieri nel campo di Katzenau, 353 morirono. Nel campo di Tapiosuli, nei pressi di Budapest, nel solo periodo compreso fra gennaio ed aprile del 1917 ci furono oltre 2000 morti su 9000 deportati. A Gollersdorf gli Italiani furono rinchiusi in baracche di legno che avevano in precedenza ospitato un lazzaretto per malati di tifo: vi furono anche altri casi analoghi in altri campi. Fra i lager adoperati, vi fu quello di Mathausen, esattamente lo stesso che fu poi impiegato dai nazisti nella seconda guerra mondiale per rinchiudervi gli Ebrei.
Soltanto fra i Trentini (75 mila deportati) coloro che non ressero agli stenti ed alle malattie dei lager fatiscenti furono circa 8000. Il totale delle vittime dei campi di concentramento in cui Francesco Giuseppe rinchiuse i suoi stessi sudditi è sconosciuto, ma le cifre proposte superano oscillano attorno alle 30.000 vittime.
Si noti comunque che il progetto era quello di deportare col tempo gran parte o tutta la popolazione italiana dei territori irredenti e trasferirla e sparpagliarla in regioni lontanissime, in Austria, Boemia e Moravia. Questo piano fu, ad esempio, formulato in modo esplicito da altissimi funzionari dell'impero per il Trentino e ci si servì della guerra come pretesto al fine d'iniziare la deportazione.


27 ottobre 1916: il fronte della cartolina postale illustrata per Trieste dal campo di concentramento per internati civili di  da Göllersdorf in Austria.

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