Nel corso della prima guerra
mondiale i prigionieri austro - ungarici
provenienti dai vari fronti vennero indirizzati in campi di prigionia sparsi in
tutta la penisola.
Su
precisa indicazione del ministero dell’Interno, inizialmente i prigionieri non
furono utilizzati per alcun tipo di lavoro manuale all’esterno dei campi,
probabilmente per paura che l’immissione sul mercato del lavoro di una numerosa
manodopera a basso costo potesse provocare tensioni sociali in uno scenario
socio – economico già sconvolto dal conflitto. Tuttavia questa disposizione non
fu mantenuta per troppo tempo, ben presto anche gli italiani si decisero ad
adottare le disposizioni contenute nell’articolo 6 del Regolamento dell’Aja che
ammetteva l’impiego di prigionieri di guerra in lavori esterni. A partire dal
1916, soprattutto in seguito alle pressanti richieste provenienti dalla
borghesia agraria, i soldati prigionieri furono utilizzati con continuità nei
lavori agricoli e, sia pur in misura ridotta, anche nell’industria. Furono
queste principalmente le ragioni che indussero le autorità italiane a trasferire
un cospicuo numero di prigionieri
austro-ungarici nella cittadina abruzzese di Avezzano, principale centro e
capoluogo della Marsica, in provincia dell’Aquila.
Lettera partita dal campo di
concentramento di Avezzano per Beremend in Baranya (Ungheria), timbri di
censura italiani e austriaci.
Il
campo di Avezzano, oltre che essere un posto di reclusione opportuno in virtù
della lontananza dagli scenari bellici, rispondeva a precise opportunità
pratiche. In primo luogo l’esigenza di reperire manodopera, non necessariamente
specializzata, da adibire alle necessità
agricole dei campi posti nella piana del Fucino, una superficie di circa 15.000 ettari
strappata nel periodo tra il 1852 e il 1876 alle acque dell’omonimo lago, rimasta
in gran parte incolta durante il periodo bellico a causa del reclutamento degli
uomini validi per l’inquadramento nell’esercito. A queste motivazioni bisogna
aggiungere la necessità di provvedere alle opere di ricostruzione seguenti al
gravissimo terremoto che sconvolse la Marsica il 13 gennaio del 1915.
La
necessità di effettuare i necessari lavori atti a restituire un minimo di
normalità alla città si scontrava però con la carenza di lavoratori validi a
causa dei reclutamenti dovuti alle esigenze di guerra. Quindi nella tarda
estate del 1916 venne istituito ad Avezzano
un campo di prigionia destinato ad accogliere prigionieri di guerra
dell’esercito dell’Austria-Ungheria.
Posto
alla periferia Nord di Avezzano il campo occupava una superficie pari a circa 30 ettari divisi in
quattro distinti settori; le prime costruzioni furono realizzate utilizzando
materiale ricavato dalle baracche adoperate in precedenza per fronteggiare
l’emergenza provocata dal terremoto, in seguito le baracche furono sostituite
da strutture in muratura e legno. Il campo poteva ospitare 15.000 prigionieri e circa 1.000 tra soldati semplici,
sottufficiali e ufficiali del Regio Esercito destinati alla sorveglianza dei
reclusi.
Fronte e retro di lettera
con testo dal campo di concentramento di Avezzano
per Beremend in Baranya (Ungheria), timbri di censura italiani e austriaci.
Nel
campo le condizioni di reclusione erano piuttosto dure, come d’altronde in
tutti i campi di concentramento organizzati dalle varie forze belligeranti,
compresi quelli sparsi sul territorio italiano. Nonostante che la convenzione
dell’Aja firmata prima dello scoppio della guerra stabilisse condizioni minime
di sussistenza e di rispetto, la situazione nei campo è drammatica. Il regime di sorveglianza, le condizioni
igieniche, il vitto, provocarono proteste da parte del governo austriaco e
della stessa opinione pubblica dei territori della duplice monarchia.
Alle
condizioni di detenzione, già dure di per sé, si aggiunse ad aggravare la
situazione l’epidemia di Spagnola tra il 1918 e il 1919. I prigionieri del
campo di Avezzano vennero utilizzati inizialmente per attività legate allo
sgombero delle macerie e per lavori di pubblica utilità legati alla
ricostruzione di strade ed opere pubbliche. Da un certo momento in poi i
prigionieri vennero adibiti anche al lavoro dei campi; la clausola che ne
vietava l’utilizzo in concorrenza con il lavoro libero veniva aggirata facendo
prendere in carico i prigionieri da
parte dell’amministrazione comunale di Avezzano che poi li “girava” ai privati,
in particolare ai principi Torlonia. A questo punto stupisce la singolarità
delle richieste riguardo ai prigionieri – lavoratori, sembra infatti che le
richieste maggiori riguardassero specialmente prigionieri di nazionalità
rumena: forse per una maggiore facilità di comunicazione rispetto a tedeschi, cechi
e ungheresi, forse per una maggiore attitudine allo svolgimento di mansioni
dure.
I prigionieri presenti ad Avezzano
appartenevano a tutte le nazionalità presenti nel composito universo
dell’Impero Austro-Ungarico, quindi austriaci, ungheresi, romeni originari
della Transilvania, del Banato e della Bucovina. Con il passare del tempo, e
per le motivazioni accennate, il campo
assunse però una fisionomia ben più delineata. Ci fu comunque un avvenimento
che determino una svolta decisiva: dopo il congresso delle nazionalità
oppresse, che riunì a Roma i rappresentanti delle principali nazionalità
comprese nella monarchia austro-ungarica, tenutosi tra il 27 marzo e il 9
aprile del 1918, Avezzano divenne il principale centro di aggregazione dei
romeni transilvani e nucleo generatore di quella che fu la cosiddetta Legione Romena.
Del
resto l’organizzazione di prigionieri austro – ungarici in reparti combattenti
al fianco dell’impresa non era una novità. Già nel 1917 reparti cecoslovacchi,
formati da prigionieri di guerra, erano stati organizzati dall’intesa in
Francia, dove vennero utilizzati sul fronte occidentale, in Russia contro i
bolscevichi, e anche in Italia dove i battaglioni lavoratori cechi vennero
utilizzati dietro le linee dell’Adige oppure sull’altipiano dei Sette Comuni il
24 settembre 1918 dove i nuclei arditi cechi andarono all’assalto della Cima
tre Pezzi con i bersaglieri.
Ai prigionieri si offriva l’opportunità di
assumere il nuovo status di alleati, e all’esercito di rimpinguare le divisioni
stremate dal conflitto con un contingente reclutato tra i circa 20000 prigionieri
austro – ungarici di nazionalità romena. A Cittaducale, in provincia di Rieti,
il 6 giugno 1918 venne creato un Comitato di Azione dei Romeni di Transilvania,
Banato e Bucovina per iniziativa dell’ex ministro romeno rifugiato in Italia,
il principe Dimitrie Ghica, dei vari comitati pro Romeni sorti un po’ ovunque
nella penisola e con l’appoggio di un
gruppo di ufficiali del’esercito italiano. I rappresentanti romeni in Italia
riuscirono ad ottenere il 15 ottobre 1918 dal ministro della Guerra Zuppelli la
costituzione di una Legione Romena posta sotto il comando del generale di
brigata Luciano Ferigo. Precedentemente, tra il giugno e il luglio del 1918,
quando ormai la guerra volgeva al termine, a ponte di Brenta, vicino Padova, si
erano già costituite tre compagnie romene comprendenti 830 soldati e 13
ufficiali. Queste, inquadrate nella VIII, V e IV Armata italiane presero parte
a eventi bellici importanti, come la battaglia del Monte Grappa e quella
decisiva di Vittorio Veneto. In seguito a tutti questi avvenimenti iniziò un
graduale lavoro di concentramento di tutti i prigionieri austro – ungarici di
nazionalità romena nel campo di concentramento di Avezzano. Una volta giunti in
Abruzzo, i romeni ottenevano un inquadramento militare e il necessario
equipaggiamento da guerra, quindi venivano sottoposti a un periodo di
addestramento a cura di ufficiali del Regio Esercito. La maggior parte dei
Romeni concentrati ad Avezzano accolse di buon grado l’opportunità di essere
inquadrata in una Legione combattente a fianco dell’intesa: un po’ a causa dei
sentimenti antimagiari e antitedeschi già presenti nelle zone di provenienza
dei prigionieri stessi (che come si è detto erano la Transilvania, il
Banato e la Bucovina, territori
appartenenti al’epoca alla duplice monarchia) un po’ per il risentimento
nazionale dovuto all’occupazione della Romania da parte dei Tedeschi, in
seguito alla capitolazione di Bucarest il 6 dicembre 1916. Infatti occorre a
questo punto ricordare che la
Romania era entrata nel conflitto il 28 agosto del 1916 con
la dichiarazione di guerra all’Austria a cui seguirono, tra il 28 agosto e il 1
settembre, le dichiarazioni di guerra al paese danubiano da parte di Germania,
Turchia e Bulgaria.
In una prima fase del conflitto le truppe
romene avanzarono fino ai Carpazi, ma una controffensiva austro-tedesco-bulgara
portò alla riconquista della Transilvania e all’occupazione del paese.
Marzo 1918, occupazione tedesca
della Romania: francobolli di Germania del 1902 soprastampati “Rumanien” e
nuovo valore in Bani.
Settembre 1918, occupazione
tedesca della Romania: francobolli di Romania del 1916 soprastampati M.V.i.R. –
Military Verwaltung in Rumanien (Amministrazione Militare in Romania.
A
queste motivazioni occorre aggiungere anche considerazioni di carattere più
pratico. Il trattamento riservato ai Romeni era decisamente migliore di quello
a cui invece erano sottoposti gli altri prigionieri austro – ungarici: erano
frequenti i banchetti offerti dai comuni del circondario, così come le gite
organizzate in varie località limitrofe. Maggiore era anche la libertà di cui i
Legionari godevano, più o meno simile a quella dei militari italiani inquadrati
nel regio Esercito. Infatti che al termine del conflitto alcuni di essi
convolarono a nozze con ragazze del posto e rimasero definitivamente in
Italia. Tuttavia queste disparità di
trattamento, unite ai sentimenti antimagiari di quanti avevano acconsentito a
combattere a fianco dell’Intesa, non tardarono
ad alimentare un clima sempre più teso tra i Romeni e gli altri prigionieri
austro – ungarici: le risse erano all’ordine del giorno, e la scarsa
guarnigione italiana faticava a placare gli animi. L’episodio più grave si
registrò il 12 ottobre del 1919, quando un gruppo di legionari incendiò le
baracche destinate ai prigionieri ungheresi; i carabinieri di guardia tardarono
ad intervenire e il bilancio fu gravissimo: due soldati magiari persero la vita
e quarantacinque rimasero feriti. Appariva quindi chiaro che, terminate le
incombenze della guerra e venuta meno l’utilità di questi militari, la Legione Romena andava
smantellata, e insieme a essa tutti i campi di concentramento,
indipendentemente dalla nazionalità dei reclusi. I primi rimpatri dal campo di
Avezzano iniziarono solo nell’autunno del 1919, i primi a partire furono
proprio i Romeni: un primo contingente parti dal porto di Taranto a bordo del
piroscafo Meran alla volta del porto di Galati.
Per i Legionari Romeni si aprivano nuovi scenari bellici: la guerra contro le formazioni bolsceviche e contro gli irredentisti magiari.
Per i Legionari Romeni si aprivano nuovi scenari bellici: la guerra contro le formazioni bolsceviche e contro gli irredentisti magiari.
Cartolina commemorativa della Legione Rumena.
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